Per decine di anni ho avuto solo colleghe donne. Ai convegni di Logopedia, tutte donne. Solo in apertura dei lavori, arrivava immancabilmente il Direttore di qualche Dipartimento, il Primario, il Coordinatore delle Professioni Sanitarie….faceva gli auguri a tutte e ci lasciava a confrontarci su qualcosa di evidentemente, allora, poco appealing per il genere maschile.
Ricordo una volta in cui una collega neurologa decise di accompagnarmi ad un Convegno Internazionale di Logopedia (lei usava presentarsi come “il neurologo”). Quando varcammo la porta dell’enorme sala stigmatizzò le chiome lunghe presenti, rimarcando l’eccessiva omologazione di genere.
Le feci notare che il contrario succedeva SEMPRE nei convegni medici nei quali mi portava lei, da anni, dove spiccava l’assenza di donne sul palco (senza che lei lo notasse).
Personalmente fino a una decina di anni fa ho conosciuto un solo collega, che purtroppo ora non c’è più.
Le ragioni di questa scarsa rappresentatività maschile sono tante e tipiche delle professioni di cura, in particolare di quelle che sono state per anni ancelle della Medicina (come la Riabilitazione) e a lungo lungo relegate nel calderone della “manovalanza che agisce al di là della scientificità”.
Nei primi anni ’90 nelle Cliniche Universitarie (almeno a Genova) sentivi definire i fisioterapisti “spadellatori” e noi logopediste alla stregua di “maestrine”. Poi, quando la professione ha raggiunto una maggiore validazione istituzionale (ora siamo tutt@ Dottori e Dottoresse !) sono arrivati i primi giovani uomini e per fortuna il gap di rappresentativà si sta riducendo.
Non ho dati italiani, ma secondo l’ Health and Care Professions Council inglese, negli UK nel 2020 c’erano solo 522 logopedisti su un totale di 16.517 dipendenti. Un collega inglese sul numero di luglio 2020 del Bulletin (The Official Magazine of the Royal College of Speech and Language Therapist) scrive che a suo parere la questione della diversità di genere deriva, in parte, dal fatto che la maggior parte dei logopedisti tende ad essere di classe media.
In Italia credo abbia più a che fare con la questione del pregiudizio atavico secondo il quale la donna è più portata ad esprimere cura, basti pensare alle parole di Gregorio Maranon che attribuisce alla femminilità la capacità di rispondere ai bisogni che l’animo maschile, con le sue prolunghe tecnologiche, non sa cogliere (“Nessuno dei rimedi nostri, poveri medici, ha il meraviglioso potere di una mano di donna che si posi su una fronte indolenzita. In quel decisivo momento, la scienza scompare; ed è sopra la donna, piena di mondo, che si appoggia l’angoscia di colui che va addentrandosi nella solitudine senza rive dell’aldilà“).
Ma la specificità di genere non è mai una cosa bella e in sanità è spesso causa di conflitti. «I saperi spontanei delle donne, il loro contatto storico con il corpo e con la cura, diventano attributi «bassi», contro un «alto» che è tecnica scientifica «oggettiva» e «pura» […] Tutto ciò che chiama in causa, nell’operatività quotidiana, l’approccio e lo stile femminile, l’esperienza e la cultura delle donne, viene rifiutato come poco professionale, squalificante o di disturbo per un’identità asessuata, asettica, depurata dal genere” (G. Badolato (a cura di), Le donne nelle professioni d’aiuto, Borla, Roma 1993.).
Ora le cose stanno cambiando. Dobbiamo quindi fare un re-framing anche rispetto al linguaggio che usiamo per definire i/le professioniste?
Come sempre, quando si tratta di socio-linguistica, viene in aiuto l’ottima Vera Gheno che spiega l’esistenza di nomi epicèni, ossia ambigeneri, per i quali basta modificare l’articolo – e tutti gli accordi all’interno della frase – per cambiare il genere. È il caso del nome “logopedista” che appartiene a quella categoria di epiceni per i quali la differenza di genere torna comunque fuori al plurale: logopedisti/logopediste.
Tutti questi sostantivi rimangono tali e quali al maschile e al femminile (per questo non diciamo logopedisto), basta cambiare gli accordi attorno.
Dunque, no, non diremo mai “È arrivato il logopedisto!”. Ma neanche diremo i logopedisti, per definirci tutt@.
E se lo faremo, chiederemo una deroga speciale come faccio io tutte le volte che parlo e mi scuso per il fatto di usare il maschile sovraesteso. Dico che è per essere più comprensibile, ma forse è solo pigrizia.